Una storia che continua
Ero in vacanza in Grecia quando, nella notte, ricevetti la telefonata di mio fratello che mi avvertì di rientrare in Italia. Ricordo le sue parole “la mamma potrebbe non farcela”. Avevo la valigia pronta perché quel giorno avremmo dovuto trasferirci in un'altra isola. Quel giorno il destino fu dalla mia parte, avessi ricevuto la notizia solo qualche ora dopo, durante la navigazione oppure arrivati in quell'isola senza aeroporto, non oso immaginare quale disperazione aggiuntiva avrei vissuto. Con le lacrime mi diressi verso casa.
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Mamma era la nostra famiglia.
Spesso credo che il senso di tutto questo fosse proprio aver potuto cogliere l'opportunità di dirle quanto le volessi bene. Era ovvio che le volessi bene, in una famiglia "vecchio stile" succede che certe cose si sappiano ma non si dicano. Si sa e basta.
Ma un giorno, davanti a lei nel suo letto d'ospedale, le dissi, per la prima volta da quando non ero più bambino: “mamma ti voglio bene!”. E lei stupita della mia affermazione mi rispose: “si, lo so”. Era ovvio.
La sua risposta rimarrà impressa nel mio cuore e nella mia mente.
Ricoverata nella notte in seguito ad un'emorragia, non ricordo cosa fecero i medici in quei giorni. E' trascorso troppo tempo da allora. Ricordo invece che le prime notti in neurochirurgia avevo paura di stare da sola e chiedevo ad un'infermiera di rimanere con me in stanza. Lo raccontò a mio figlio.
Mi riscontrarono un'ipertensione endocranica associata ad un'ischemia e ad un infarcimento emorragico. Fu riscontrata una dissecazione della Pica. Mi fu messo uno "stent" ed eseguita una craniectomia decompressiva sopraoccipitale. Solo un medico specializzato avrebbe potuto operarmi con endoscopia, ma nel piccolo ospedale di provincia tale figura professionale non esisteva. I medici informarono la mia famiglia che un trasferimento in elicottero era considerato troppo rischioso per la mia vita, pertanto in assenza di un medico specializzato e in presenza di un'emergenza, fu autorizzato ad intervenire con endoscopia anche un medico con una minore specializzazione. E così fece. Diede il massimo di sè, suppongo. La chiusura della dissecazione della Pica fu solo parziale ma mi ripresi. Dopo un primo periodo nel reparto di rianimazione intensiva fui trasferita in neurochirurgia. Fui anche tracheotomizzata.
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Sviluppai un idrocefalo che fu trattato inizialmente con una derivazione ventricolare esterna (DVE), poi con una derivazione ventricolo-peritoneale (DVP). Mi ripresi ancora una volta e trasferita nel reparto di riabilitazione.
Ictus, emorragia, aneurisma, ischemia, idrocefalo, derivazioni ventricolari, quanti termini ho sentito e dovuto imparare perché fino a quel momento per me tutti privi di significato.
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I medici dissero che i danni encefalici subiti in seguito all'ischemia avrebbero comportato l'impossibilità di muovere la parte sinistra del corpo. Sarà cosi, mi dissi! Poi una sera il fratello di mia madre (mio zio) la salutò lasciando la stanza e lei per risposta alzò il braccio sinistro in segno di saluto. Un mistero.
L'ultima volta che sentì la voce di mamma fu ad inizio ottobre, 3 mesi dopo. C'eravamo mio fratello ed io. Quella sera un'infermiera togliendo la chiusura della tracheocannula le permise di parlare. I medici non ci credettero, forse perché nessuno era autorizzato a rimuovere la chiusura. Ma credetemi, mamma mi disse: “non è facile parlare sai!”.
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In gennaio 2014 assistetti a una seduta di riabilitazione. Lei era sdraiata sul lato sinistro e la riabilitatrice le chiedeva di girarsi. Lei faticava e per la verità quasi non ci riusciva, ma le dissi “brava mamma “. Alzò il dito della mano destra davanti la bocca col messaggio di starmene zitto o di non toglierle la concentrazione. Segno del suo grande impegno, lo so.
Sorrisi e su consiglio della riabilitatrice me ne andai. Ero ancora fiducioso allora.
Si sviluppò nuovamente l'idrocefalo con un aumento della pressione endocranica soprattutto al quarto ventricolo. I medici decisero questa volta per una derivazione ventricolo atriale (DVA). Questo significa che il LIQUOR eccedente (in ciascuno di noi viene prodotto costantemente un liquido che avvolge il nostro cervello) e che non può più essere naturalmente riassorbito, veniva “drenato” nell'atrio del cuore. Anche la DVA non produsse i risultati attesi, probabilmente a causa della mia fibrillazione atriale.
Ad inizio 2014 contattai grazie ad una conoscente (funziona sempre così in Italia) un neurochirurgo dell'ospedale San Raffaele di Milano. Nei lunghi mesi trascorsi in ospedale, grazie agli innumerevoli colloqui con il personale medico ed infermieristico, mi ero ormai appropriato di un linguaggio medico o tecnico sufficiente per poter dialogare in modo comprensibile con chi esercitasse la professione medica. Linguaggio che oggi ho disimparato.
Il neurochirurgo al telefono mi espresse la sua impossibilità di formulare valutazioni attendibili e fondate solo su una conversazione telefonica. In base a quello che al meglio potevo spiegare, e per la mia insistenza, ipotizzò un "probabile o possibile" intervento risolutivo ai problemi dell'idrocefalo.
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Ne parlai al primario del reparto della neurochirurgia del nostro ospedale.
Gli spiegai di aver contattato un neurochirurgo, nominando solo la struttura ospedaliera, gli esposi la soluzione prospettatami: insomma gli proposi quanto il neurochirurgo suggeriva si sarebbe fare o quantomeno valutare di fare.
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Compresi solo in seguito che un primario non gradisce sentirsi dire da altri cosa lui debba fare. Funziona così purtroppo!
Ricordo quante volte ci vedeva nel corridoio del suo reparto, noi in attesa di udienza. Lui forse giustamente con altre priorità si negava.
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ll primario ci propose un intervento. Accettammo, ovvio, ma ancora una volta non fu risolutivo. Dopo quell'intervento mamma peggiorò ed ebbe un declino.
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Il primario del reparto di riabilitazione ci invitò a trovare una sistemazione definitiva in una residenza sanitaria assistenziale (RSA). Avrebbe significato gettare la spugna e io non ero ancora pronto a farlo!
Chiesi il trasferimento nella nuova struttura di riabilitazione, nuova eccellenza, il cui direttore scientifico è il primario e dottor professor Leopold Saltuari. Mi fu negata. Cosi, con la cartella clinica in mano, decisi di andare in Austria a chiedere personalmente al Professor Saltuari di accettare il ricovero di mamma. Mi ascoltò, lesse la cartella e decise di accettare il trasferimento. Decisione che non fu accolta positivamente nell'ospedale di origine.
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Purtroppo per ben due volte mamma dovette essere ritrasferita in neurochirurgia perché non era stato risolto il problema dell'idrocefalo. E per due volte fu ritrasferita nella struttura di riabilitazione specializzata.
L'impossibilità o incapacità della neurochirurgia di risolvere il problema dell'idrocefalo non diede più prospettive di recupero del quadro clinico.
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Nel solito reparto di neurochirurgia, ormai nel giugno 2014, decisero infine di intervenire come aveva “suggerito” mesi prima il neurochirurgo del San Raffaele. E risolsero definitivamente il problema dell'idrocefalo!
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Troppo tardi: le condizioni di mia madre erano ormai ben diverse da quelle di 5 mesi prima.
Questa non vuol essere di certo un'accusa nei confronti di alcuno o alcuni. Sia ben chiaro, non ne ho le competenze. Per fare accuse vi sarebbero le sedi appropriate, come i tribunali. Ma con quale fine oramai? Il tempo non torna indietro. Mi limito solo ad esporre la cronologia dei fatti: a suo tempo avevo sottoposto a chi di competenza di valutare una tecnica di intervento neurochirurgico, non fu considerata “fattibile”. Il quadro clinico declinò e tale “soluzione” fu adottata dal nostro primario 5 mesi dopo. Non furono necessari altri interventi, nemmeno a distanza di ormai 3 anni. Semplicemente un dato di fatto!
Da quasi tre anni proseguo la mia vita in una residenza sanitaria assistenziale.
Nella mia unità di degenza ci sono persone come me. Con la sindrome della veglia arelazionale, si parla anche di stato di minima coscienza.
Qualche medico dice che qualcuno è in coma vigile, ma quanta disinformazione vi è ancora, anche nell'uso della terminologia da parte di alcuni medici (potrete leggere oltre in questo Sito), o addirittura con la sindrome di locked-in, con la quale la mia famiglia spera io non conviva.
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Non potrò mai dirvi esattamente cosa sento, cosa provo, cosa percepisco o se i miei cari abbiano compreso il mio modo di rispondere. Può essere che dal movimento delle mie palpebre loro intendano una risposta o vogliano intenderla. Può essere che a volte questi mie movimenti siano non intenzionali. In pochi altri modi sono capace di comunicare, se non il dolore o la stanchezza.
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Esiste una, seppur minima, comunicazione tra me e i miei cari. Quando mio figlio Andrea mi racconta qualcosa che mi interessa, spalanco gli occhi, quello che fate voi quando esprimete un “ooohhh” esterrefatti. Quando invece i suoi discorsi mi sono noiosi, chiudo gli occhi!
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Due volte mi hanno riportato a casa, nella mia casa, nel mio giardino. Se ho provato qualcosa non lo saprete mai. Ma era tutta una gioia intorno a me. Io vedevo questa grande gioia.
Per mio marito in primis, che non potrò mai smettere di ringraziare per i nostri 48 anni di matrimonio.
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Sono la gioia dei miei figli, di mia sorella, e dei miei veri amici. Dico veri, perché anche questo accade, che molti spariscano. Ma di nuovi se ne trovano anche in questa nuova vita.
Come in questa struttura, dove sono amorevolmente accudita. Sembra di vivere quasi in una grande famiglia allargata.
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Qualcuno dice che la sindrome della veglia arelazionale sia per me una condanna a non morire e per la mia famiglia una condanna a non poter vivere.
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Vi dico: io vivo cosi, sentendo l'amore attorno. E chi giorno dopo giorno trascorre il tempo con me sa che io percepisco il suo amore.
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E che se ne voglia dire, anche questa è vita. Seppur molto diversa dalla vostra.
8 maggio 2017
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